venerdì 19 febbraio 2016

VISIONI - Entertainment



Non nascondo che le aspettative per l'ultimissimo film di Rick Alverson fossero molto alte; sia per il favoloso cast, che si porta dietro tutti, davvero, sia per i nomi in fase di scrittura, Heidecker, ovviamente, e chi altro?, e poi la bellissima locandina, il Sundance, o forse era il SXSW, The Comedy e il momento.




Bisogna iniziare da Gregg Turkington, partenza obbligata, e dal ruolo che porta in scena, quel Neil Hamburger, osannato da critica e pubblico, e che già aveva fatto la sua apparizione in altre serie e film, soprattutto per la TV. Non bisogna però distanziarsi dai nomi tutelari del mondo rappresentato, il vero underground americano, e quindi eccoci qua, siamo a Entertainment, e forse il modo più facile per descrivere quest'opera del 2015 è dire mockumentary artistico senza dimenticare, di conseguenza, tutti i pro e i contro che si nascondono dietro le etichette. Non ci distanziamo da un modo di fare cinema che rappresenta l'upper (o forse middle, ma che differenza c'è?) class americana, solo bianchi, solo annoiati, solo contemporaneità; e, nonostante i paletti sembrino fissati e riduttivi, lo spazio per lavorare, pensare, produrre c'è. Il tema portante di tutto, di tutti, è la solitudine, l'incapacità (impossibilità) di sviluppare dei rapporti affettivi con qualcuno; è palese eppure mai esplicito, e si riflette nelle telefonate alla figlia, nel rapporto con il cugino ricco, nella relazione di lavoro con il giovane clown (un grandissimo Tye Sheridan, il futuro è suo) e in tutti gli altri personaggi, raggiungendo l'apice nella scena del parto, nella disperazione, nell'inutilità della vita e nel perpetuarsi di questa inutilità nella morte. E come non citare la bellissima Amy Seimetz, momento emotivamente top di Entertainment (per lo scrivente, ovvio); l'incapacità di relazione con l'altro al suo culmine e gli insulti, la rabbia, la noia e, forse più di tutto, la frustrazione. La frustrazione per una vita che non ha riservato quello che ci si aspettava, si meritava?, e quindi la sopravvalutazione di sé, il disprezzo per gli altri; tutto questo, in Entertainment, usando la metafora dell'intrattenimento, della comicità (anche se riduttivo). Intrattenimento inteso come fuga dalla desolazione; intrattenimento inteso come mettersi in gioco per superiorità, per intelligenza, per fuggire dagli incubi.




Incubi che si fanno lynchani da un certo punto in avanti; ed è forse la seconda parte quella più debole, come se a un certo punto Alverson (e Heidecker) avesse avuto paura di fare un film tutto sullo stesso livello di percezione e, buttandosi sulla discontinuità narrativa e sulla rappresentazione di un mondo quasi onirico, cercasse una soluzione alla monotonia del palco-giovanecomico-vecchiocomico-telefonataallafiglia. Abbandonando, per forza, le strade già intraprese: quella del rapporto col clown che gli fa da supporto in tour, il percorso migliore in quanto a possibilità, potenza di, incomunicabilità, stima, e quella del rapporto figlia-padre, anche se, anche se. Finalone sagace e senza scampo per nessuno; le risate pazze (vere o immaginate che siano) davanti alla televisione e alla sitcom messicana non concedono nessuno sconto e nemmeno perdono in corrosione e incisività. C'è forse il dubbio che qualcosa in più si sarebbe potuto fare, insomma, The Comedy è proprio un'altra faccenda nella materia denuncia della società e quindi autodenuncia, anche se Entertainment ha i suoi apici e pure conquisterà la sua fetta di pubblico (inteso come critica). Insomma, un altro tassello nel percorso di rappresentazione dell'oggi intrapreso da Alverson, e come non premiare il coraggio, come avere paura dell'intrattenimento.

6,5

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