lunedì 8 febbraio 2016

BEST#3 - Il cammino della speranza


Vitti na crozza supra lu cannuni / fui curiuso e ci vossi spiare / idda m'arrispunniu cu gran duluri / murivi senza un tocco di campani. La canzone che accompagna Il cammino della speranza, Vitti 'na crozza, è di quelle che non dimentichi più: dal ritmo allegro e cantata col sorriso (perlomeno nella versione registrata per il film, in assoluto la prima mai riversata su disco) racconta invece la tragica quotidianità del mondo delle zolfare sicule, le difficoltà, la vita, la morte. È uno dei primi film del maestro, Pietro Germi, e come il precedente In nome della legge è ambientato in Sicilia, o almeno da lì prende vita la vicenda, la storia, l'avventura.



Ovviamente, partiamo dall'inizio; collocare storicamente quest'opera è semplicissimo: siamo in pieno Neorealismo, il climax della storia cinematografica italiana, il mio momento preferito, la mia passione, e cosa dire di più? Sono gli anni di Riso Amaro (di cui forse un giorno parlerò) e di Paisà, di Non c'è pace tra gli ulivi e di Ossessione. Erano tutti amici, colleghi, fratelli e il fermento era forte; con poche righe non potrei certo rendere giustizia a tutto questo, e nemmeno la profondità necessaria. Il legame si fa ancora più evidente con i titoli di testa: ecco i nomi di riferimento, un Fellini prima dell'esordio insieme al buon Tullio Pinelli alla sceneggiatura, Rustichelli compone le musiche e che dire di Raf Vallone, favoloso protagonista anche del dittico rurale di De Santis (e, piccolo cenno personale, anche dell'unico film di Malaparte, Il Cristo proibito)? Il Neorealismo de Il cammino della speranza è, forse unico esempio della corrente italiana cinematografica, di tipo interregionale: Messina, Napoli, Roma, Parma, Aosta (o almeno ho sempre pensato, capito, si trattasse di). E quindi diversità di paesaggi, di pensiero, di linguaggio, di velocità: la città, Roma, in cui perdersi e mai più ritrovarsi, la pianura padana, dove lavorano i bergamaschi, dove si ripropone l'eterno conflitto polentoni e terroni ed ecco i veneti compagni di viaggio e poi tutti gli altri. Emerge prepotente il tema del viaggio, e cosa c'è di più grande, cosa di più cinematografico, e quale può essere un miglior generatore di storie, di intrecci umani, di avventure? Ma ci ritornerò dopo, senza dubbio; riprendendo il discorso, parte della grandezza del film di Germi sta nella sua importanza come documento storico, come testimonianza anche e soprattutto inconsapevole di un'Italia che è scomparsa e che non tornerà più. E quindi il lavoro in miniera, la canzone popolare, la Francia che è l'America, il dopoguerra; e poi i filari alberati emiliani, la corriera, il matrimonio affrettato, la Sicilia, il destino degli emigranti, gli scioperi e i crumiri. È come vedere un mondo che non esiste più, e mai ho trovato una rappresentazione così alta e allo stesso tempo veritiera, mai il non voluto ha preso così tanto il sopravvento sulla finzione cinematografica. Visivamente il bianco e nero di Germi è veramente fantastico: ogni fotogramma è un quadro e soprattutto l'inizio è stupefacente per intensità e bellezza delle inquadrature; tanti riferimenti successivi mi vengono in mente, e dei più disparati: le fotografie di Salgado e le pubblicità di Dolce & Gabbana, e uniamo il basso e l'alto e il profanissimo.




E, infine, il melodramma che tanto ha sconcertato il Morandini che si aspettava un altro Paisà; troppo patetismo, troppe lacrime, colore, folklore, dove è la crudezza del vero Neorealismo (che, poi, come definire una corrente? come identificarne una precisa paternità e caratteristiche di appartenenza?)? Ecco, insomma, anche ammettendo che l'origine del soggetto è un romanzaccio e non me ne voglia Di Maria, lo scrittore, Morandini non tiene conto dell'importanza di una cosa: il potere dell'avventura. Insomma, dopo tutti i cenni fatti sull'enormità del film di Germi come documento storico, ecco emergere il lato affascinante di una trama semplice e incredibilmente adatta ai volti degli attori, ai luoghi, al momento storico. E tornando al tema del viaggio, la ricerca della felicità, già definito (qualche riga sopra) il miglior generatore di storie, è importante dire che ne Il cammino della speranza tutti gli elementi del topos ritornano: l'abbandono del luogo natale, la ricerca del lavoro, le difficoltà del viaggio tra tradimenti, lotte intestine, e incomprensioni geografiche, la crescita interiore e il raggiungimento dell'obiettivo. Un cerchio pare chiudersi, anche se manca il nostos, il ritorno alla terra natia. E qui sta l'importanza della corrente cinematografica, del momento, delle amicizie, e quindi ecco la rappresentazione del Neorealismo, la piccolezza dell'Italia e la sua contemporanea grandezza multiforme, il bisogno di abbandonare la povertà, la miseria, e cercare il proprio destino altrove. I nostri siciliani camminano e lavorano e cantano e quanta bellezza; Raf Vallone trova l'amore nella donna perduta del paese, e chi se no?, e poi finalone strappalacrime col sorriso di un bambino che conquista un soldato (la magia del cinema, la magia dell'avventura), non prima di una incredibile scalata in mezzo alla tormenta e di una pazzesca sfida finale coi coltelli (e la morte violenta fuori scena, che non si sporchi l'avventura, che non si sporchi l'immagine). E tanto altro si potrebbe dire, tantissimo, ma l'unica cosa che conta, come sempre, è la visione, senza paraocchi, senza timori; lasciare al cinema ciò che è di sua competenza, da sempre, e godersi quest'ora e mezza di pura e classica avventura, per lo scrivente la più filmicamente grande del cinema italiano tutto.



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