giovedì 16 luglio 2015

VISIONI#27 - Hannah takes the stairs



Regia di Joe Swanberg, è vero, ma Hannah takes the stairs è un lavoro soprattutto collettivo, i nomi alla sceneggiatura sono quelli degli attori e delle persone attorno, di tutti loro, del mondo parallelo. C'è Andrew Bujalski, ci sono i fratelli Duplass, Greta Gerwig, ovviamente, e poi Ry Russo-Young, Aaron Katz nei ringraziamenti, tutti, davvero.




All you have to do is be self deprecating dice a un certo punto Kent Osborne, e Bujalski gli risponde Mumble ed ecco il manifesto, facile, annunciato in punta di piedi eppure consapevole, semplice, cristallino, spiegazione non necessaria. Parto dalla fine, dicendo che non è un lavoro pienamente riuscito, anzi, risulta difficile a una prima visione (difficile in quanto non si svela da subito; non permette allo spettatore di cogliere l'atmosfera, le sensazioni, la profondità, dietro, dentro, davanti, subito) proprio perché estremamente personale, e quindi viziato da un punto di vista capzioso ed egocentrico. Lo è perché, assente lo script, ogni attore dona se stesso al personaggio in scena, e Greta Gerwig lo fa in maniera meravigliosa, e quindi l'effetto risultante è un po' come quando ripensando alle azioni passate, ci si stupisce della propria ingenuità, delle proprie idee. La storia (e di storia si può parlare, nonostante tutto): Greta Gerwig, mentre fa Greta Gerwig, è Hannah, una giovane (i 40 sono i nuovi 30, e quindi 24 è post adolescenza) scrittrice, insoddisfatta cronica esplicitamente, insicura implicitamente (Tolerate the uncertainty; devo lasciare Mark Duplass?; Fuck, like, you know; il bellissimo discorso sulle cotte) che, nel periodo di cicatrizzazione di una ferita al piede, il tempo così misurato, vive tre storie con tre uomini diversi e reali, una vasca da bagno, degli occhialini da immersione, delle trombe. È il desiderio che tutto sia sempre nuovo, fantastico (nel senso di diverso dal reale) che la muove.




I dialoghi sono, appunto, come già detto prima, estremamente mumblecoriani, la regia digitale di Joe Swanberg, semplice ed efficace visione di ciò che accade, svuota di significato l'occhio cinematografico tout court, inteso come movimenti, punti di vista inconsueti, virtuosismi. E quindi, introducendo la fine già annunciata, il chiudersi in sé di questo film, il suo essere incomprensibile a tutto tondo ad uno spettatore casuale, è un difetto grosso, evidente in quanto involontario; eppure come non rimanere affascinati da Greta Gerwig, dalla sua fragilità, dalla sua naturalità, dalla sua luminosità che esaltano ogni singola scena, donando valore alla visione.

5,5

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