venerdì 24 aprile 2015

MONO #1 - Patrick Bokanowski - Scoprire, scolpire, svelare



Classe 1943, Patrick Bokanowski è francese, regista, animatore, fotografo, sperimentatore. Porta avanti da quarant’anni un discorso importante, continuo e mai banale, anche nelle opere meno riuscite. Ha seguito, è conosciuto ed è, forse, merito della sua profonda cultura, del suo antidogmatismo, del suo schierarsi a favore della pura e semplice visione; cosa c’è di più importante, nel cinema dello sguardo, del riempire lo schermo, aggiungere, sovrapporre, distorcere? Il frame by frame, fotografico prima e pittorico (scultoreo) poi, permette il controllo del movimento, di camera e dei personaggi, degli oggetti e, quindi, una volta ottenuto il controllo, totale, di ciò che vuole mostrare (vedere), cosa ne fa? Disturba, somma, gira, sposta, esagera.
Del 1972 è il bellissimo (bello nel senso di fico) La femme qui se poudre in cui Bokanowski, già completamente maturo, pronto, si dice così, maturità uguale capacità espressiva, lavora sulla decostruzione dell’immagine e quindi anche sulla ricostruzione. È un incubo in cui i punti di vista e le prospettive sono ribaltate, molteplici; esiste un percorso di svelamento, di ricerca visiva, per capire, comprendere quello che si vede. Le macchie buie coprono la narrazione (quasi) assente, ma percettibile, e si parte dalla luce, luce come assenza di buio, quindi negativa?, e poi si arriva all’immagine e infine alla sequenza di immagini. Una donna si trucca, si maschera, si decompone, viene attaccata con una sedia, squarci, fratture; la musica, puramente strumentale, orchestrale, è esageratamente adatta, un abito su misura per una confezione sporca, onirica, notturna, nera. La moglie Michele, compagna di vita, di tutta la vita, presumo, compone, esegue?, la prima di una serie di colonne sonore contemporanee, estremamente precise, studiate, ricamate. È Lynch pre-Lynch, è destrutturazione di sguardi, è scoperta.





Due anni dopo, siamo nel 1974, arriva Dejeuner du matin, una colazione disturbante e scomposta. I personaggi e la narrazione sono più evidenti che mai, eppure introvabili; siamo molto lontani da una trama, chiaramente, obbligatoriamente, si sperimenta, si studia; una bambina, una coppia di adulti, un vecchio, i gesti mattutini, rituali. Ritualità che ritorna nelle immagini a colori, straordinariamente, di paesaggi rurali, tradizioni, movimenti, percorsi. La parte del sogno, intesa come sovrapposizione, copre la realtà, la maschera, e lo spettatore deve attraversare il velo, guardare oltre, appunto, svelare l’immagine, il vero punto di vista. La visione è, a tratti, pura, senza senso (solo quello dell’immagine).




E poi L’ange, 1983, lo svelamento di un edificio, una costruzione, un luogo, o forse un paese? La percezione dello spazio è, fin dall’inizio, incredibilmente tridimensionale, grazie alla capacità di Bokanowski di controllare l’immagine, di destrutturarla; è fondamentale l’importanza della ripetizione e della sovrapposizione dei gesti, visionati fino alla saturazione mentale, da ogni angolo, in ogni istante, senza un perché (ha importanza?). C’è, quindi, lo svisceramento di ogni atto, la restituzione meccanica di ogni gesto, fino allo svuotamento di significato, la perdita necessaria. Il tempo con(tro) lo spazio contro l’immagine, tutto perde senso in favore della pura visione, negando il pensiero, estromettendolo. Le figure sono, come sempre, umane o, meglio ancora, umanoidi; maschere, sovrapposizioni, esasperazioni distorcono anche la nota, banale, figura umana. La sequenza della biblioteca è la più netta ed efficacemente semplice (?) nell’espressione di questo discorso: lunga, ripetuta, estenuante. Si esce dagli interni, si va fuori, dove?, una donna, e poi una scala, ripida, infinita, la voce di un bambino, per la prima volta, colori, luce, astrazione. Si finisce con la luce, appunto, l’unico finale possibile insieme alla sottrazione di significato all’immagine (e addizione di livelli, strati, sull’immagine stessa).





È il 1984, La part du hasard è un omaggio al maestro di Bokanowski, Henri Dimier, al suo lavoro, alla sua espressione. Introvabile (per me, si accettano consigli).
La plage, otto anni dopo, si divide in quattro capitoli, il primo è molto immediato, nel senso di immediatezza e comprensione visiva, meno il secondo e meno ancora il terzo, che risulterebbe incomprensibile, totalmente, senza i primi due. La spiaggia, ripresa con obiettivi e lenti progettate dallo stesso Bokanowski, è il livello “base” a cui vengono sovrapposti il mare, le nuvole, i riflessi, la polvere. L’immagine diventa (rimane) puramente se stessa, la narrazione non esiste più, e non tornerà più (con un’eccezione) nel cinema del regista francese.



Evolvendo il discorso de La Plage, Au bord du lac, 1994, perfettamente intelligibile per chi segue il percorso di Bokanowski, è pittorico, quasi impressionista, su stessa ammissione del regista, anche se la rotta è personale, proveniente da altrove, lontanissimo. La tecnica è differente dal precedente: niente lenti auocostruite, ma mercurio liquido a ricoprire l'immagine. Si ha la netta sensazione di un proseguimento di pensiero, di una crescita, non evolutiva, i picchi ci sono già stati e siamo oltre il culmine, bensì cumulativa, di esperienze, di prove, di tecniche. La meccanicità e la ripetitività sono sottolineate dalla musica, ancora una volta incalzante e roboante.



Flammes, 1998, parte dalla distorsione spaziale dell’immagine, spaziale inteso anche come temporale; Bokanowski lavora su se stesso, sovrapponendo attimi della propria filmografia e portando avanti il compito svolto ne L’Ange, sull’ossessione, sullo svuotamento di significato dei gesti. Destruttura i propri lavori, dicendo, in 3 minuti e mezzo, che anche lo svelamento, la scoperta, l’astrattismo sono sottoposti a un livello ulteriore e così all’infinito.



Nel 2002, in quella che è l’unica (mezza) concessione alla narrazione, Bokanowski realizza Le canard a l’orange, opera atipica, non perfettamente riuscita, da WTF. È un lavoro disturbante eppure divertente su una donna (il regista stesso) che cerca di cucinare l’anatra all’arancia, come da titolo. La musica è differente da tutto quello che abbiamo sentito nelle opere di Bokanowski, è vivace (?), divertita. Compare un dinosauro, si cammina sulle pareti, sul soffitto, l’anatra vola, scompare, si salva, tutti ballano.



Del 2002 è anche Eclats d’Orphée, in cui si smonta uno spettacolo teatrale, fotografandolo in ogni fase, da ogni angolo, seguendo, vedendo, scoprendo. L’avvenimento esiste in quanto tale, gesti e persone non hanno significato, non ne hanno bisogno. È un’opera breve, non risolta, prosegue il discorso, ma senza colpire, senza andare a segno.


Le Reve éveillé, del 2003, è un’intervista a Colette Aboulker Muscat sul’importanza dei sogni nel trattamento di un problema, o di una malattia. Ancora più introvabile. Ed infine, 2008, Battements Solaires; il film si apre con l’immagine pura, senza concessioni, c’è del rumore visivo, e si lavora sulla sovrapposizione, come sempre, come Bokanowski ha sempre fatto. L’immagine viene distrutta e poi ricostruita, dal ritorno di questa rimangono schegge, frammenti, attimi. Ogni fotogramma è visione, espressione di quello che il regista ricerca, con costanza e desiderio di esplorazione; il tema è puramente visivo e le scene pazzesche non mancano, i fuochi d’artificio su tutto, il gioco di ombre e di luci. La musica è minimale, estremamente minimale, quasi assente.



Le Reve del 2014 è l’ultima opera di questo sperimentatore, scultore di suoni (insieme alla moglie) ed immagini, il cui desiderio espressivo, dipingere la fotografia, non si è mai placato nel corso degli anni, e la cui importanza, nella storia del cinema sperimentale (e non solo), risalta proprio in virtù della sua perseveranza.

Consigliati:
La femme qui se poudre (assolutamente)
Dejeuner du matin
L'ange
La plage
Flammes (a me, concettualmente, è piaciuto molto)

L'intervista

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